Alchimia: fusione-trasformazione-sortilegio-magia

Il naturale processo alchemico della trasformazione della materia, che al contatto con aria, acqua e fuoco aveva dato origine alla vita del pianeta, continua a riproporsi in un processo circolare di costante naturale trasformazione attraverso cicli di morte e rinascita. Si fonde, si ricicla, si trasforma; si ridà vita alla materia, si addomestica la natura, la si modifica, la si condiziona, la si sfrutta, la si danneggia, la si consola con l’armonia dei colori, la magia delle parole, i sortilegi dei suoni, gli incantesimi d’amore.

Ouroboros, simbolo alchemico

Il pensiero alchemico nell’antichità escludeva ogni falsificazione e inganno perché ogni aspetto della vita e ogni pratica magica erano governati da una intensa partecipazione al soprannaturale. Proteso al raggiungimento dell’assoluto interessò spesso l’anima e lo spirito, portandolo a governare la coscienza e, nell’abbandono dei sensi, a distaccare il pensiero logico dall’Io. Ora le leggi della natura non sono più immutabili né inviolabili, il Sole non governa l’oro né la Luna l’argento e Marte non ha niente a che fare col ferro. I pianeti e le stelle non sono più associati ai metalli, né governati dagli dei; per prolungare la vita non serve la pietra filosofale, i lati oscuri dell’universo appartengono alla scienza dell’uomo. La magia appartiene alle favole, ma il fascino del misterioso e dell’occulto alimenta ancora l’astrologia, gli oroscopi, la lettura dei tarocchi.
Magia e mistero erano intessute un tempo con la vita e con le abitudini del nostro paese, in particolare del Sud. Lo testimoniano le maschere apotropaiche dai volti deformi sui prospetti delle case o sui portali delle chiese, atti ad allontanare le influenze maligne e terrorizzare gli spiriti demoniaci.
La leggenda racconta che la torre della basilica di Santa Caterina a Galatina sia stata costruita in una sola notte da una schiera di diavoli: il loro potere era svanito al cantare del gallo e quelli che non erano riusciti a scappare prima del sorgere del sole erano rimasti pietrificati dalla luce sulla sommità della torre, dove si possono tuttora ammirare.

Basilica di Santa Caterina d'Alessandria, Galatina (LE)

Il ballo della Pizzica, prima di diventare spettacolo, era un ballo terapeutico, sfogo isterico di donne punte da una tarantola che le pizzicava sotto le vesti durante la mietitura. Alla tarantola si attribuiva una sorta di possessione malefica dei sensi e ai movimenti della danza, sollecitata dai maschi che battevano il tempo, la liberazione dagli istinti demoniaci.
Nelle fredde notti invernali, quando le nuvole coprivano la luna e il vento ululava tra i rami degli alberi, le foglie si animavano e sullo sfondo del cielo inviavano strani messaggi. Le nonne raccontavano di vecchie donne che volavano a cavallo delle scope, nelle notti buie: erano le macare o masciare che spaventavano tutti con i loro ululati.
La ricerca della vita nascosta, dell’elemento trascendente, non appartiene solo alla favola: persevera nel tentativo di scoprire tutto ciò che si cela sotto le varie forme della realtà.
La vita umana, influenzata dalla corsa frenetica alla conquista del potere e dell’immortalità, scorre in alchimie negative di una natura oltraggiata, di una cattiva politica, di una diffusa ignoranza e di una falsa religiosità. Falsi ideali, utilitarismo, mancanza di coraggio e conseguente incapacità di costruire un futuro, ci rassegnano ai ricorrenti cataclismi nel ciclo dell’eterno divenire.
Augusto Guzzo in Analisi dell’umana esperienza scrive: “Le forze della natura sono così potenti che, quando la volontà dà nell’arbitrio, nella superbia, nel voler -far da sé-, e asservirsi tutto e tutti, e usar la salute, le energie e quante opportunità le sono offerte dalla vita, agli scopi che piace a lei determinare, mutevoli ed estrosi come il suo capriccio ignaro e insofferente di leggi, allora come belve, le forze della natura sviluppano e spiegano una capacità di distruzione e di sconnessione da far restare senza respiro”. La speranza di trovare un rimedio ai mali che travagliano l’umanità implica una coscienza di sé, una morale che ci guidi nell’incerto viaggio della vita verso la libertà dello spirito, presupposto della umana dignità. Assurde ideologie, velleitari protagonismi, dissennato predominio degli istinti, dei comportamenti intersoggettivi lontani da ogni rispetto, educazione, coscienza, generosità, stravolgono il concetto della cultura, della morale e dell’etica che portano l’uomo a distinguersi dagli animali grazie alla ragione. Ma la Ragione, potenza sovrana ed eterna non è dell’uomo, anche se opera nell’uomo, quanto piuttosto l’uomo è della Ragione. E ancora Guzzo: “Tocca alla coscienza sforzarsi per arrivare al piano della ragione che ha di per sè stessa una sua spontaneità di iniziative per cui opera sugli impulsi sensibili, razionalizzandoli, bonificandoli e fortificandoli”. È la spontaneità della Ragione ad attirare la coscienza spingendola a ragionare e, attraverso una continua ricerca avvicinarsi al Vero che “è dentro di noi più di quanto noi siamo dentro di noi.”

Augusto Guzzo, Analisi dell'umana esperienza
antologia di scritti teoretici
a cura di Pietro Fernando Quarta

È questo innanzitutto il compito della psicoanalisi: pulire la mente ipnotizzata dalle forze del mondo sotterraneo dell’inconscio, liberarla dall’impotenza del lasciarsi determinare dalle sue suggestioni e dai meccanismi dell’istinto che evadono dall’armonia originaria e spontanea della Ragione. Abbiamo dimenticato la nostra origine: si confonde la cultura con una superficiale conoscenza che, salvo alcuni programmi di nicchia, si alimenta da mezzi di comunicazione non avvalendosi più dell’umana secolare esperienza dell’umanità. La televisione e buona parte della stampa riducono il pensiero a sottomissione di opinioni prefabbricate, a subdolo asservimento della ragione, con l’unico scopo di avere più ascolti o visibilità. È triste notare come alcuni vecchi programmi televisivi fossero non solo più intelligenti degli odierni ma più educativi e culturalmente stimolanti. La civiltà è cultura, è mettere in comune i beni di ogni ordine e specie, è aiutare il seme a germogliare e il figlio a crescere, è scambievole rispetto e amore per la pianta e per il genitore, è vivere nella responsabilità e nella gioia.
In cima a ogni desiderio c'è la libertà, ma raggiungerla è un sogno se il buio ottenebra la mente e ci si ritrova “in una valle oscura che la diritta via era smarrita”. Le difficoltà del viaggio verso la conoscenza le ritroviamo nelle allegorie e nei simboli della Divina Commedia.
Nel Convivio Dante aveva metaforicamente paragonato all'uomo all'apicultore che ha, in questa vita, la possibilità di percorrere due tipi di cammino, quello che conduce alla cera e quello che conduce al miele. Sono percorsi entrambi positivi se ci si accontenta della soddisfazione materiale non conoscendo mai la vera libertà dai condizionamenti delle passioni che appesantiscono la carne impedendogli la dolcezza del miele.
Alla base della vita c'è l'Amore ma bisogna riconoscerlo, così come era indispensabile riconoscere il piombo prima di cercare di trasformarlo in oro. Già nell'antichità Eros era la divinità più vicina al genere umano, era dispositivo di felicità ma anche di sofferenza, a metà tra bene e male, sapienza e ignoranza, umano e divino, forza e tensione verso l'assoluto, ma anche ricerca di soddisfazione egoistica dei propri bisogni.
Dante, che per amore e sull'amore ha composto la Divina Commedia, sa che il vero potere alchemico della pietra filosofale è “Il ben dell'intelletto” e nella Commedia è guidato dal pagano Virgilio, “il savio gentil che tutto seppe” in grado di disciplinare la mente e guidarlo a depurarsi dalle passioni nel viaggio lungo attraverso se stesso e oltre se stesso. L'Inferno della “valle oscura”, smarrita la diritta via, metafora della inconsapevolezza che conduce l'essere umano vittima della propria irresponsabilità, è il primo passo verso un percorso di trasformazione e riconquista del Sé nel mondo dell'umanità, bisognosa d' amore. Nel racconto del suo viaggio ultraterreno Dante ci ha regalato, tra poesia e amore, uno dei canti più belli, tristi e disperati, quello di Paolo e Francesca. Di loro Dante ha pietà. “Francesca, i tuoi martiri a lagrimar mi fanno tristo e pio”. Egli conosce bene il tormento del desiderio de l' “Amor, ch'a nullo amato amar perdona”. E sa anche che non è l'adulterio a condannare i due amanti, quanto piuttosto il loro appartenere ai “peccator carnali, che la ragion sommettono al talento”.
È l'inconsapevolezza, la mancanza totale di responsabilità che fa dire a Francesca “Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse” sottraendo all'amore, che appartiene all'anima oltre che al corpo, la forza e il potere di travalicare la morte e condurli insieme a riveder le stelle.

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