Tra il vecchio e il nuovo

Capita spesso che durante la notte rimanga per ore tra il sonno e la veglia, prigioniera di pensieri confusi e disordinati che si affastellano nella mente. Immagini vecchie, molto vecchie, che mi appartengono ma quasi non ricordo, cercano di farsi strada, spingono per conquistarsi uno spazio. Molte appartengono alla mia infanzia, sono rimaste sepolte per anni nel dimenticatoio, poi nel buio fanno capolino. Questa notte sono piccola, insieme ad altri sono distesa sotto un enorme olivo tra le braccia della nonna. E’ notte, è tutto buio ma ci sono le stelle, lontano il rumore dei tuoni; qualcuno dice che bombardano Brindisi. Un’immagine diversa si sovrappone alla mia: una bambina ucraina, rincantucciata in un angolo di un grande casermone, abbraccia una bambola e piange. In altre immagini un palazzo brucia, la gente corre nelle strade tra le macerie che poco prima erano case, scuole, ospedali. Bambini dallo sguardo smarrito e col terrore negli occhi mi riportano in un tempo che credevo cancellato per sempre.

Brindisi, 1941 - Abitazioni civili colpite dai bombardamenti

Quel luogo del mio tempo passato è la campagna pugliese dove trascorrevo la maggior parte delle vacanze e che durante la seconda guerra mondiale aveva dato rifugio a profughi di paesi colpiti dalle bombe. Erano gli anni ’40, vecchie immagini scorrono nella mente più veloci dei pensieri e si confondono con altre immagini, prolungandosi verso luoghi e persone che pensi ci saranno sempre nella tua vita. Invece non durano né i luoghi, né le persone, nemmeno gli anni dell’infanzia. Rivedo le foglie del tabacco in lunghe collane di corda appese ad asciugare, ne sento quasi l’odore acre che mi dicevano tenesse lontane le zanzare. Ora i campi di tabacco non ci sono più, altre coltivazioni ne hanno preso il posto. Terre aride e pietrose sono state rese fertili, serre sormontate da pannelli solari consentono di produrre verdure in abbondanza, forse meno saporite. Gigantesche pale eoliche si muovono per catturare il vento. Altrove il vento non canta più tra i rami dell’olivo, messaggero di pace: alberi centenari che vestivano di bruno e d’argento le terre aride tendono oggi al cielo nude braccia mutilate, prive di foglie. Ai maestosi tronchi contorti Pirandello scriveva: “… Che se nel tronco tuo scabro e stravolto / queste piaghe del tempo fosser occhi / e tu fossi nei rami cervelluto, / ripensando che vivere è da sciocchi / e che a morire si profitta molto, / non saresti trecento anni vissuto.”

C’è una nuova rappresentazione relazionale e spaziale con la natura, per secoli legata alla storia dell’uomo, in perfetto equilibrio con i bisogni del quotidiano. Nella campagna della mia infanzia c’erano ancora alcuni vecchi sentieri erbosi, tratturi in terra battuta formatisi dal calpestio delle greggi e degli armenti. Con la scomparsa delle grandi transumanze molti di questi sono stati incatramati e ora passano trattori ed automobili. Pare che la regione voglia ora rivalutarli, in quanto preziosa testimonianza identitaria della comunità, con un complesso “processo di pianificazione della rete tratturale articolato in tre fasi”. Ma quale sarà il rapporto tra l’autentico e il non autentico, l’artificiale e il naturale, il necessario e l’inutile?

Mutati inevitabilmente gli schemi concettuali con cui si osservava il mondo, l’uomo ha perso il contatto con la propria natura originaria e ha modificato se stesso nella sua identità di soggetto razionale. Una maggiore conoscenza del corpo lo ha spinto a scandagliare le forze che lo spingevano a conoscere e a desiderare di raggiungere la parte profonda dell’Io dove alberga il desiderio. Ma il desiderio, che nella sua etimologia ci accomuna alle stelle, può divenire una sorta di demone, in bilico tra la soddisfazione del corpo nel suo esasperato bisogno di perfezione e la capacità di arricchirsi nella relazione con gli altri. Tecniche e culture specializzate puntano al culto del corpo come oggetto bisognoso di sensazioni di affermazione, di potere e di forza, anche se ciò va a detrimento della comunicazione con gli altri e della vita sociale. Tale esasperata interiorità corporale, riducendo la ricchezza della mente e dello spirito, rimanda a un nostalgico ritorno all’infanzia, desiderio allo stato nascente, al ripiegamento su se stessi, al compiacimento narcisistico.

Nella piazza principale del piccolo paese dove sono tornata a vivere, un antico municipio decorato a mano in pietra leccese si erge con torretta e orologio, circondato da costruzioni, anch’esse in pietra leccese. E’ una piazza piccola con intorno un palazzo ottocentesco, una tabaccheria, tre abitazioni, un negozietto, un bar, due panchine e un salone da barbiere che grazie alla sua bella insegna di epoca liberty, riuscì a liberarla da una rovinosa “ristrutturazione”. Dei giovani architetti, con l’appoggio sconsiderato di un assessore, decisero di eliminare la vecchia pavimentazione in bianca pietra lavica per sostituirla con una lucente distesa in marmo nero e al centro una costruzione in mattoni rossi che copriva in parte la vista del municipio. Sono passati diversi anni ma ricordo ancora, appena arrivata da Milano, lo sconcerto alla vista di questo scempio, condiviso per fortuna da tutti gli abitanti. Per caso o chiamato da qualcuno, un giorno capitò in paese Vittorio Sgarbi a valutare la ristrutturazione. Il suo giudizio fu feroce e con il tono a lui abituale salvò un’unica cosa, l’insegna del salone del barbiere. Un’altra ristrutturazione riportò la piazza ad essere quella di prima, con l'aggiunta di un albero a fare ombra alle panchine sulle quali di giorno si alternano i pensionati che discutono non si sa di cosa, ma discutono sempre, e di sera i giovani intorno al bar. Alla festa del protettore la piccola piazza si trasforma in una specie di teatro con luminarie, banda, spettacoli e tanta gente. L’insegna del barbiere fa orgogliosamente mostra di sé.



L’esempio della piccola piazza di un piccolo paese è solo una goccia nel mare magnum dell’arbitrarietà dell’apparenza che vuole interpretare la contemporaneità. Dare un nuovo aspetto al patrimonio che abbiamo ereditato dal passato presuppone la capacità di saper governare quei meccanismi psichici che intrappolano e riducono la nostra soggettività, evitando il più possibile le insensate derive che minacciano la radice civile e politica della convivenza umana. Superato il concetto di cultura rigida e chiusa, oggi abbiamo la facoltà di ridefinire la cultura di appartenenza prediligendo le modalità interpretative locali in base all’incontro e allo scambio di scenari diversi senza necessariamente fare piazza pulita della propria essenza, disincarnandola. Cultura è tutto ciò che concorre alla nostra formazione di soggetti consapevoli del ruolo da svolgere nella società in cui si vive. Il costante processo evolutivo ha arricchito l’antico concetto di cultura con le nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche. Guerre e rivoluzioni hanno modificato gli antichi confini, hanno portato a nuovi incontri e nuove conoscenze, antichi valori assoluti sono diventati valori relativi ma possono nascere nuovi valori in un mondo in cui la comunicazione aiuta l’incontro e lo scambio con culture diverse. A dispetto delle distanze spaziali e temporali, i mondi di vita comunicano in vari modi attraverso confini simbolici permeabili. Grazie alla comunicazione e alla razionalità, il confine tra noi e gli altri deve essere inteso come momento costitutivo di un processo di decentramento culturale. Sappiamo bene che soltanto attraverso la modificazione del nostro sguardo e della percezione del corpo e della mente è possibile trasformare la radice della vita sociale e politica. Le immagini che in questo angoscioso momento ci vengono presentate quotidianamente ci mostrano l’essenza dell’uomo e del mondo come macchine della padronanza. Un nuovo paesaggio può nascere solo da una dimensione spirituale e libera della nostra autenticità. Non abbiamo il potere di portare la pace dove c’è la guerra, possiamo solo ricercare dentro di noi uno sguardo nuovo per capire la realtà. La natura, che rinasce sempre e nonostante tutto, ci ha lasciato questo in eredità: l’amore per la condizione umana nel suo rapporto con la libertà, la giustizia, la bellezza e la verità.

Franca Maisetti


Piazza del Popolo, San Pietro in Lama, 1928
Il paese in festa per l'arrivo dell'acqua potabile e dell'elettricità



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