CIBO. VIAGGIO TRA STORIA, ARTE E MENTE

Non si può pensare bene né amare bene se non si è pranzato bene
Virginia Woolf


Jacopo Tintoretto, La tentazione di Adamo ed Eva, 1550-1553, Gallerie dell'Accademia, Venezia 

Eros e cibo, che condividono le stesse aree del cervello e sono controllati dagli stessi ormoni, ci accompagneranno insieme per tutto il tempo che ci sarà permesso vivere.

Nella Bibbia la vita terrena del genere umano ha inizio da un frutto, la mela dell’albero della conoscenza. Eva corrotta dalla curiosità, ne mangia e ne offre ad Adamo. Cacciati dal paradiso terrestre, soli e raminghi, scoprono la nudità, la carnalità, il bisogno, il desiderio. Metafora perfetta della storia infinita ed eterna della morte e della nascita. Nel tempo gli uomini hanno sublimato gli appetiti sia alimentari che sessuali trasformandoli in piacere del corpo, dell’anima e della mente. La natura ha permesso poi la modificazione del piacere in socializzazione; mangiare insieme è un fatto culturale che assume significato sociale. Conversare a tavola limita la voracità dell’istinto e la parola è elemento regolativo del gusto. La cultura della nutrizione alla quale viene educato il neonato, cioè il nutrire al seno, non è un automatismo ma è per il bambino il paradigma del bisogno che in seguito dovrà mettere in atto nei confronti di ogni altro bisogno. Ricevere attraverso il seno materno il primo pasto equivale ad incontrare il mondo per la prima volta. Espulso dal grembo, suo paradiso, si trova esposto alle intemperie dei sensi che cominciano a svegliarsi. È passato, attraverso un passaggio difficilissimo, dalla sensazione di unità nella fusione con la madre, alla sensazione estraniante di un corpo esterno che nella sua mente è un prolungamento del sé. La ricerca affannosa del seno è quindi una specie di ancora di salvezza che gradualmente diventerà fiducia e successivamente, verso il sesto/settimo mese, periodo dello svezzamento, sfiducia. Sentimenti inevitabili che nel tempo si trasformeranno in rassegnazione, attesa, speranza e nuove scoperte. È la “fase dello specchio” definita da J. Lacan “esperienza primaria di identificazione” che, confermata dal volto sorridente della madre, significherà il superamento della dipendenza da lei. La madre non gli darà mai più il seno da succhiare, il cibo-latte acquisterà un nuovo significato; il dolore della separazione sarà mitigato e addolcito da una diversa tenerezza della madre che lo aiuterà a trasformare il piacere stimolato dal succhiare in una nuova percezione della bocca come porta d’ingresso del mondo esterno attraverso nuovi cibi, nuove sensazioni, nuovi sapori. Egli è ormai un soggetto che sa distinguere l’altro, diverso da sé, che può procurargli piacere. Il suo istinto inconsapevole si sta trasformando in una prima consapevolezza e in un primo esempio di comportamento. È inevitabile purtroppo che la conquista del piacere sia accompagnato dal senso di colpa. Non sorprende che la religione cristiana abbia proprio assunto la consumazione del cibo (la mela proibita) come paradigma della condanna alla sofferenza terrena: il bisogno, la mancanza e in ultima analisi la morte. Ma nel mistero dell’eucarestia il cibo si trasforma in Dio o meglio, nell’immaginario simbolico, Dio si trasforma in cibo assumendo con tale sovrapposizione un valore spirituale che salva dalla morte. In tutte le religioni il cibo è un dono di Dio e l'alimentazione ha in sé qualcosa di sacro. Ringraziarlo prima del pasto è abbastanza comune. I divieti alimentari, le regole per la macellazione degli animali e il modo di cuocere la carne nascono da una prospettiva di purificazione strettamente legata al concetto di tabù. La religione cristiana è una delle più permissive, i pochi divieti nel periodo pasquale o il venerdì non sempre sono rispettati. In quasi tutte le religioni viene sottolineato il rispetto per la vita di ogni essere vivente e l’uccisione degli animali, solo per necessità, deve essere la meno dolorosa possibile.
La Bibbia è lo strumento che più di ogni altro ci racconta come si nutrivano i nostri antenati. 
Latte e miele sono alimenti simbolici di abbondanza e di piacere, così come il sale lo è dell’intelligenza. Nei pranzi biblici la mensa era un altare dove l’atto del mangiare era celebrazione e godimento per chiunque avesse fame e sete, come simbolicamente accade oggi nella celebrazione della messa. Sono dono di Dio anche il cibo e la bevanda, che si concretizzano nell’amore e il desiderio fisico e spirituale, come nell’intreccio d’anima e corpo tra Sulamita e Salomone nel Cantico dei Cantici:

(…) 
I tuoi germogli sono un paradiso di melagrane, 
con i frutti più squisiti,
alberi di cipro e nardo,
nardo e zafferano, cannella e cinnamomo
(…)
Venga l’amato mio nel suo giardino
e ne mangi i frutti squisiti.

Nei Testi Sacri il cibo è nutrimento, è simbolo, è metafora, ma anche alimento della terra o manna che piove dal cielo. Nell’ultima cena Cristo spezzò il pane e lo diede ai suoi discepoli, versò il vino e disse: «Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete».
E nel vangelo di Luca leggiamo: «Allora egli prese i cinque pani e i due pesci e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai suoi discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono e si saziarono e delle parti loro avanzate furono portate via dodici ceste».
Il nutrirsi è per l’essere vivente l’esperienza più importante come il nascere e il morire, per l’uomo è legato al piacere, alla felicità, all’amore ma anche al dolore.
Gli dei del mondo mitologico si nutrivano di ambrosia alla quale si attribuivano poteri miracolosi, curativi e purificanti. Dioniso, prima di essere il dio del vino, lo era stato di questo nettare divino, molto probabilmente miele fermentato o idromele dagli effetti allucinogeni, in grado di favorire esperienze mistiche. La produzione del vino risale infatti al neolitico mentre il culto di Dioniso è antecedente. L’idromele, linfa vitale della madre Terra, fu la bevanda sacra per eccellenza, simbolo della trasformazione e della poesia. In alcune tombe principesche dell’Europa del VI e IV secolo a.C. sono stati trovati recipienti con resti di idromele.
Quale fosse la cucina dell’antica Grecia lo desumiamo dai frammenti delle commedie di Aristofane (450/385 a.C.). Cucina frugale basata sui prodotti dell’agricoltura, si facevano quattro pasti al giorno a base di frumento, olio d’oliva e vino. A colazione, pane d’orzo intriso di vino, fichi e olive, talvolta anche dolci di farina di grano, olio, miele e latte cagliato (tagenites) oppure fatti con farina di farro, miele, sesamo e formaggio (staitites). Anche il pranzo (ariston), a mezzogiorno o nel primo pomeriggio, era molto parco. La cena (deipnon) era il pasto più importante e si consumava al tramonto. Uomini e donne mangiavano separatamente, prima gli uomini poi le donne. Se non c’erano gli schiavi, le donne servivano gli uomini in piatti o ciotole di terracotta, spesso sostituiti da piatti fatti di pane. Piatti di vetro o di metalli preziosi apparvero per la prima volta nell’antica Roma, eppure anche i cibi più raffinati si continuavano a mangiare con le mani. Non esistevano forchette, solo coltelli per tagliare la carne e talvolta cucchiai per minestre che solitamente si consumavano inzuppando il pane. Abbondavano i cereali con cui si preparavano focacce condite con erbe aromatiche e salse a base di pesce e frutti di mare. La carne, varia ed abbondante, era sempre di animali uccisi in sacrificio agli dei, servita insieme a uova anche di oca e fagiano. Nei simposi gli uomini si riunivano a mangiucchiare dolci e stuzzichini (tragemata) bevendo in onore di Dioniso sdraiati su lettini bassi con cuscini (klìnai) mentre si dilettavano con cortigiane, giochi, musica e danze.
Nella cultura cristiana del Medioevo era molto sentito il rapporto tra gola e lussuria e il cibo aveva la funzione di dimostrare la superiorità degli strati dominanti della società. La cucina dei potenti ricca di selvaggina fresca insaporita da spezie esotiche, carne, lardo, insaccati, formaggi, verdure, frutta e vino si differenziava molto da quella degli uomini di fatica che si nutrivano di pane d’orzo, legumi e maiale salato, e da quella dei monaci che avevano una dieta parca e senza carni.
Dante, nel XXI canto dell’Inferno, dà al cibo un’accezione negativa, come veicolo di somministrazione della pena alle anime dannate dei barattieri fraudolenti immersi nella pece bollente: i cuochi «(…) fanno azzuffare in mezzo la caldaia, la carne con li uncin perché non galli».
Precedentemente, nel XII canto i violenti erano immersi nel fiume di sangue dove venivano "bolliti" dai diavoli. L’Inferno sembra un’enorme cucina piena di pentoloni e di mestoli, mentre il Purgatorio è un luogo con profumi e sapori non permessi ai dannati penitenti, che ne conservano anche dopo la morte percezione e nostalgia, quali maggiori sofferenze nella legge del contrappasso. In tutta la Commedia il cibo è sempre rivestito di significati, riti e simboli. Ritorna alimento di sopravvivenza nel XXXIII canto, con il racconto del conte Ugolino: i suoi figli piangono e chiedono il pane:

«Ahi dura terra perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi
dicendo: padre mio chè non m’aiuti?
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e 'l sesto: ond'io mi diedi».

La condanna di Ugolino è la peggiore delle pene: il “fiero pasto” è rivivere in eterno la morte dei figli.
Nel Paradiso il cibo ritorna ad essere metafora della contemplazione mistica e si riveste di significati simbolici. La anime celesti insieme ai beati e ai santi mangiano il “pan degli angeli” del quale ci si può nutrire in eterno senza esser mai sazi dei misteri divini. Serve comunque come esempio di quanto il cibo nei vari suoi aspetti materiali e spirituali sia indispensabile all’individuo.
Boccaccio nel Decamerone racconta il cibo come celebrazione dei sensi. Cibo, vino, amore e sesso, cura e antidoto alla peste che imperversa, accompagnano ogni momento della vita di dieci giovani chiusi in un castello. Inno alla vita contro la morte, il Decamerone è una metafora della rinascita dell’umanità e il novellare dei protagonisti è simbolo di ricostruzione. Le Humanae Litterae, rappresentate dalle cento novelle, servono a rifondare un mondo vivo in tutte le sue qualità o difetti e a contrastare ogni aberrazione o sopruso. Forse come allusione o difesa alla censura per immoralità, l’introduzione del libro è sottotitolato prencipe Galeotto (Galeotto fu il libro e chi lo scrisse), con riferimento al personaggio che fece da intermediario d’amore tra Lancillotto e Ginevra nel V canto dell’Inferno dantesco.
Nel Rinascimento e nel Barocco il cibo è un’ostentazione di magnificenza, nell’arte diviene il protagonista delle nature morte dove è rappresentato nella sua valenza estetica e cromatica e nella sua varietà di equilibrio e di forme. Nella Sacra Conversazione o Pala di Brera di Piero della Francesca un uovo sospeso al di sopra della testa ovoidale della Madonna dimostra come nulla è tanto piccolo da non rientrare in una proporzione universale.

Piero della Francesca, Pala di Brera, 1472-1474, Pinacoteca di Brera, Milano

La raffigurazione del banchetto, sia sacro che profano, è un soggetto molto frequente che trova la sua massima espressione nel Cenacolo di Leonardo da Vinci. Meno note ma altrettanto famose le due tele dipinte dal Caravaggio, Cena in Emmaus, (1601), conservata alla National Gallery a Londra e la Cena in Emmaus (1606), conservata nella Pinacoteca di Brera a Milano, entrambe ispirate al vangelo di Luca. Nella prima ci sono raffigurati due apostoli, un viandante e l’oste. Nel gesto della benedizione del pane fatta dal viandante, i due apostoli riconoscono il Cristo risorto, dipinto non nel suo aspetto tradizionale ma in quello del buon pastore, tipico dell’arte cristiana antica. Meraviglia e sorpresa appare nei volti e negli atteggiamenti dei loro corpi mentre l’oste, non capendo la situazione ha un’espressione confusa. Le posizioni dei personaggi sono studiate in modo da lasciare libero il posto davanti a Gesù quasi un invito a partecipare al banchetto. I colori utilizzati, il bianco e il rosso tendente al giallo nella veste del Cristo e il verde per le vesti degli altri, potrebbero simboleggiare le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Alla tavola imbandita che ha in primo piano un canestro di frutta dipinta con molta precisione, alcuni hanno dato un significato simbolico, l’uva bianca e il melograno la resurrezione, il pollo la morte, il pane e il vino la vita, l’ombra a forma di pesce che il canestro proietta sulla tavola, il Cristo.

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601-1602, National Gallery, Londra

Nella seconda tela Caravaggio dipinge la stessa Cena in Emmaus con il Cristo risorto e i discepoli, ma i due quadri sono diversissimi tra loro. I pochissimi colori piuttosto spenti e la scarsissima luce impediscono di distinguere tutti i dettagli della scena. Il Cristo sembra in procinto di andare via e con occhi socchiusi, vestiti scuri e dimessi, appare stanco mentre benedice gli apostoli e gli uomini della locanda. Non c’è più la tavola imbandita, sul tavolo soltanto del pane, una brocca d’acqua e due piatti.

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1606, Pinacoteca di Brera, Milano

In molti affreschi troviamo sulle tavole dei banchetti gamberi di fiume rosso fuoco, simbolo di sacrificio e di rinascita. I gamberi, rinnovando il carapace a ogni cambio di stagione, indicano il passaggio dalla morte alla rinascita, dalla vita miserevole sulla terra allo splendore della vita ultraterrena.
L’ Ultima cena di Paolo Veronese, dovette cambiare nome in Convito in casa di Levi perché il tribunale dell’Inquisizione aveva trovato sconvenienti e poco idonee alcune figure e accusato il pittore di eresia per aver trasformato il tema dell’ultima cena in un banchetto indecoroso. Il pittore, pur di mantenere il suo stile mondano e festoso, cambiò titolo mantenendo comunque il tema e la collocazione nel refettorio del convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo.

Paolo Veronese, Convito in casa di Levi, 1573, Gallerie dell'Accademia, Venezia

In questo dipinto come nella grande tela delle Nozze di Cana tra le esaltazione di colore e di luce, oltre agli innumerevoli invitati sfarzosamente vestiti, si contano altrettanti servitori, lo scalco, il credenziere, il trinciante e i coppieri, sontuose tovaglie su tavole imbandite: vini bianchi e rossi in coppe di cristallo e abbondanza di ogni tipo di prelibatezze servite tra musiche, concerti e danze. La musica come sottofondo o negli intervalli per riempire gli spazi vuoti tra una portata e l’altra, era espressamente composta per allietare i commensali in molti banchetti rinascimentali; l’arredo per la tavola e le credenze era spesso disegnato da grandi artisti come Leonardo da Vinci, Benvenuto Cellini, Tiziano, Andrea del Sarto.

Paolo Veronese, Nozze di Cana, 1563, Museo del Louvre, Parigi


Molto di moda era anche il banchetto a tema; ne è un esempio il tema del mare nel matrimonio tra Alfonso II e Barbara d’Austria nel 1565. La sala fu trasformata in un fantasioso mondo marino con scogli e grotte foderate di ormesino (una seta molto leggera proveniente dalla città persiana di Ormuz) in color turchino con scaglie d’oro, gli scalchi vestiti di velluto verde, i servi rivestiti di ricami a scaglie d’oro, tre tovaglie e un sopramantile lavorato a onde di mare (il sopramantile era una tovaglia più pesante che veniva sollevata e poi ricollocata ad ogni cambio di portata e di tovaglia), i tovaglioli piegati in foggia di vari pesci con scaglie sottili d’argento in vari colori. I pranzi con almeno venti portate potevano durare un’intera giornata; vi partecipavano anche cardinali e papi. Si racconta che nel conclave del 1549 i cardinali avevano perso molto tempo ad eleggere Giulio III per l’eccessiva durata e bontà dei pranzi.
Poche cose riescono a definire un’epoca, un luogo, un popolo, una persona, quanto il cibo.
Nel corso degli anni lo sviluppo delle tecniche di produzione e l’aumento degli scambi interculturali modificarono le vecchie abitudini; si conobbero nuovi prodotti e si sperimentarono nuove ricette, ma sarà la cucina popolare italiana a gettare le basi del vero “rinascimento” gastronomico. Nascono in questi anni a Napoli pasta artigianale e ragù, a nord compare la polenta, in Sicilia la parmigiana di melanzane e il gelato. Quest’ultimo fu inventato dal cuoco siciliano Francesco Procopio dei Coltelli, che lo lanciò a Parigi all’inaugurazione del Cafè Procope. Dalla fantasia dei cuochi al seguito di Domenico Pallavicini nacque il Pan di Spagna, e il pasticciere Gasparini, di origini italiane, inventò a Meiringen in Svizzera la meringa per Maria di Polonia, promessa sposa del re Luigi XV. Nascono le regole del galateo a tavola e nelle classi agiate si diffonde l’uso della forchetta, del piatto, di posate e bicchieri individuali. Nell’ottocento fu codificato il nostro patrimonio culinario regionale dai cuochi delle famiglie ricche e si cominciò a mettere in relazione il mangiar bene e la salute fisica. Fondamentale il testo di Pellegrino Artusi del 1891, Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, che racconta la cucina nazionale e una vasta raccolta delle tradizioni locali. E’ la prima trattazione culinaria dell’Italia unita e con le sue ricette scritte in una lingua armoniosa ha contribuito alla diffusione della lingua italiana su tutto il territorio.


In una prospettiva di vita di ottanta anni, pare se ne impieghino quattro cucinando e sei mangiando. L’Artusi diceva: «Il mondo ipocrita non vuol dare importanza al mangiare ma poi non si fa festa, civile o religiosa, che non si cerchi di apparire al meglio». La qualità e la quantità del cibo in alcune circostanze diventa elemento di prestigio anche nel popolo. Scrive Grazia Deledda su Chiaroscuro: «Per la festa di Sant’Anastasio le famiglie, anche le meno abbienti del villaggio, anche quelle che erano cariche di debiti o che avevano figli agli studi, apparecchiavano la tavola, vi mettevano mucchi di focacce, taglieri colmi di carni arrostite allo spiedo, formaggi, giuncate, vino e miele e aprivano la porta a chi voleva entrare a banchettare. Gli ospiti accorrevano dai paesi vicini, i poveri e i monelli del villaggio accorrevano come mosche (…) colonne di focacce venivano distribuite agli ospiti e ai poveri che le portavano a casa per i vecchi invalidi (…) la cena o il pranzo per l’indomani». Ancora oggi a Forlinpopoli viene assegnato il “Premio Pellegrino Artusi” al personaggio che si è distinto per l’originale contributo alla riflessione sui rapporti tra il cibo e l’uomo.
Ne Il pranzo di Babette di Karen Blixen, la protagonista è una grande cuoca parigina, sfuggita alla repressione della Comune di Parigi dopo l’uccisione del figlio e del marito. Trova ospitalità in Danimarca presso due anziane sorelle che rinunciando all’amore e a qualsiasi piacere, vivono una vita semplice e frugale, ligie alle regole imposte dal loro padre, un pastore protestante. Per molti anni Babette fa la governante e contribuisce all’attività di beneficienza, aiutando le due anziane sorelle fino a quando un giorno, ricevuta da Parigi una vincita di ben 10.000 franchi, decide di fare un pranzo alla memoria dei cento anni dalla nascita del pastore. Spende tutti i soldi nell’acquisto di ingredienti e bevande e conquista gli ospiti seducendoli con profumi, sapori e raffinatezze di cibi che non avevano mai sognato di mangiare. Nessuno conosceva il suo mestiere di cuoca ma il vecchio generale, antico spasimante di una delle sorelle, capisce il reale valore del pranzo e lo definisce sublime. Questo banchetto, reso magico oltre che dalla bontà del cibo anche dall’amore con cui i piatti sono stati cucinati, porta una ventata di gioia e dà colore ad un’atmosfera solitamente grigia e monotona. Riaffiorano i ricordi del passato; il generale racconta di uno chef donna che un tempo lavorava al Café Anglais di Parigi, una persona capace di trasformare un banchetto «in una avventura amorosa». Babette tace ma addolcisce il sapore del rimpianto nella ricchezza del ricordo. Ha speso tutti i suoi soldi ma ormai in Francia non ha più nessuno che l’aspetta; riguardo al denaro dirà alle due sorelle che «un artista non è mai povero».

Isak Dinesen (Karen Blixen), Il pranzo di Babette 

L’elemento olfattivo all’interno dei cibi cattura l’attenzione dei sensi. La piacevolezza, l’intensità dei profumi, le loro sfumature, sia che riguardino i cibi o i vini nel loro giusto abbinamento, facevano dire al Marchese De Sade: «(...) Non conosco nulla che vellichi così voluttuosamente lo stomaco e la testa quanto i sapori di quei piatti saporiti che vanno ad accarezzare la mente preparandola al piacere». Distinguendo le varie sensazioni del gusto, Gustave Flaubert lo descrive così: «(...) Lo si schiaccia dolcemente tra lingua e palato, lentamente fresco e delizioso comincia a fondersi, bagna il palato molle, sfiora le tonsille, penetra nell’esofago accogliente e infine si depone nello stomaco che ride di folle contentezza». L’olfatto anticipa il gusto che riguarda le sensazioni che percepiamo grazie ai recettori gustativi presenti nella bocca e in particolare sulla lingua. Le molecole odorose liberate dagli alimenti durante la masticazione stimolano le cellule olfattive, determinando una sensazione diversa dal profumo, che è l’aroma. La bocca quindi rileva il gusto, il naso coglie gli aromi. Il sapore è la combinazione tra gusto e aroma. Gabriele D’Annunzio, cultore della raffinatezza, non poteva ignorare la dolcezza del gusto in ogni campo. Nella sua elegante dimora, il Vittoriale, la cucina era l’ambiente più importante che ben testimonia il suo gusto esasperato per tutto ciò che ha a che fare con il cibo. Sceglieva con cura ogni oggetto che serviva per la preparazione delle vivande o quelli per la conservazione egli alimenti. Si può ancora oggi ammirare, ad esempio, il contenitore per la mostarda aromatizzata alla vaniglia che preservava il profumo erotico e sensuale per condire la carne, alimento che prediligeva insieme alle uova e ai dolci.
Nel nostro paese baciato dal sole e dal mare, sapori e culture si intrecciano e creano dei riti intorno al mangiare. La cucina italiana ricca di sapori e profumi conserva antiche tracce greche, bizantine, ebraiche, arabe e ha sviluppato, in molte varietà autoctone, cibi provenienti nel XVI secolo dal nuovo mondo, come patate, pomodori, peperoni e mais. Nella cucina d’Italia, Cipro, Spagna, Grecia e Marocco nasce la “dieta mediterranea” patrimonio immateriale dell’umanità riconosciuto dall’UNESCO nel 2010. Pablo Neruda in Odi elementari, sul profumo dei pranzi rustici mediterranei scrive: «invade la cucina, entra per i pranzi, si siede riposato nelle credenze, tra i bicchieri e le saliere azzurre. Emana una luce propria maestà benigna».
Ogni paese ha il cibo che lo caratterizza: il fish and chips inglese, il cous cous in Marocco, i barbecue americani o le tapas spagnole, la pizza e gli spaghetti italiani, il formaggio francese... Italo Calvino in Palomar presenta il Museo del Formaggio come se fosse al Louvre, descrive i pascoli verdi, i prati profumati della Provenza e, dietro ogni forma e ogni oggetto, vede la presenza della civiltà. Come dimenticare la Fiskesuppe, la zuppa di pesce norvegese, magari dopo un giro tra i fiordi, o il salmone, il granchio reale, il waffle accompagnato dal sidro. E i gamberi nei cartocci sul lungomare di San Francisco, il pane col salmone affumicato nei chioschi lungo le strade di Praga dai ristoranti famosi per la dovizia dei cristalli bellissimi sulle tavole imbandite.
Qualcuno ha scritto che mangiare piatti ricchi di sapori e profumi tipici è come dare un morso a un pezzettino di mondo. Sapori e profumi alimentano la fantasia, suggestioni ed immagini letterarie e poetiche diventano cibo per la mente.

Borges associa il vino all’allegria.
«In quale regno o secolo e sotto quale tacita congiunzione di astri, in che giorno segreto non segnato dal marmo, nacque la fortunata e singolare idea di inventare l’allegria? Con autunni dorati fu inventata».

Ed è il profumo dei limoni, "trombe dorate di solarità", insieme al colore della terra, che fa dimenticare a Montale i problemi e i misteri della vita.
«Qui tocca a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l’odore dei limoni».

Nella bocca il gusto sollecita il ricordo.
«Portai alle labbra un cucchiaino di tè in cui avevo inzuppato un pezzetto di madeleine. Ma nel momento stesso che quel sorso, misto a briciole di biscotto toccò il mio palato trasalii attento a quanto avveniva in me di straordinario… Donde mi era venuta quella gioia violenta? Sentivo che era legata al sapore del tè e della focaccia, ma lo sorpassava… Non doveva essere della stessa natura; è chiaro che la verità che cerco non è in essa ma in me.»
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La strada di Swann.

Natalia Ginzburg in Lessico familiare ricorda Cesare Pavese che «Era solito arrivare da noi mangiando ciliegie …quelle piccole e acquose che avevano il sapore di cielo»
E Italo Svevo paragonava la moglie «A un bonbon… A un frutto maturo che madre natura mi ha gettato in grembo».
Ne La poetica della pancia (viaggio gastronomico nell’anatomia letteraria degli scrittori italiani dell’Otto-Novecento) di Costantino Massaro, leggo una lettera scritta da Tomasi di Lampedusa alla moglie una domenica di Pasqua del 1942.
«Sono arrivato venerdì sera alle quattro del pomeriggio accolto da enormi tazze di vero cioccolato con panna montata e brioches. Hanno un cuoco eccellente. Ti racconterò il menù di una sola cena ma tipica: lasagne col sugo di carne trita e ricotta; vol au vent di pasta sfoglia con aragosta e latticello di pesce; cotolette panate con patate alla crema, piselli al prosciutto e una straordinaria torta su ricetta di Auguste Escoffier: pasta sfoglia, crema molto leggera e ciliegie candite. Il tutto tiepido e nelle quantità abituali».
Questo scritto riporta indietro nel tempo, agli anni della guerra, quando il cibo era limitato e talvolta assente. Siamo molto lontani dall’epoca del Gattopardo quando il principe di Salina conclude il pranzo iniziato col timballo, con l’orgia di dolci siciliani. Siamo nel 1942 e Tomasi di Lampedusa, ospite nella villa di capo d’Orlando, è talmente scioccato dalla ricchezza del pasto offertogli, da sottolineare dopo l’elenco delle vivande, che era “nelle quantità abituali” mangiavano cioè così tutti i giorni e non perché era Pasqua. Nella descrizione dei piatti c’è una certa voluttà come se l’enorme tazza di “vero cioccolato” gli carezzasse ancora le papille, il gusto del latticello di pesce che accompagnava l’aragosta sostasse ancora nella bocca e sulla lingua fosse rimasto il sapore della torta. Nella bocca cibo e letteratura si incontrano, nella bocca nasce la parola; il cibo degli scrittori diventa letteratura e la letteratura diventa cibo per la fantasia e la fantasia crea immagini.

Come dimenticare Totò che sente l‘odore del cibo prima di vederlo, lo tocca, ci parla mentre balla in piedi sul tavolo con in mano gli spaghetti nel film Miseria e Nobiltà, Sordi in Un americano a Roma «Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo», Aldo Fabrizi per il quale bastava il profumo dei maccheroni al sugo per sconfiggere il fantasma della povertà. O il pane che la madre divideva la mattina tra i figli in Rocco e i suoi fratelli o il luccichio negli occhi del piccolo Bruno alle prese con una filante mozzarella in carrozza in Ladri di biciclette, da Cesare Zavattini a Vittorio De Sica. Come la letteratura anche il cinema italiano ha rappresentato la fame e l’arte di arrangiarsi, ha descritto la cucina come il luogo degli affetti, del buon gusto, del piacere della convivialità e anche della povertà. Dal pane nero al pane bianco, l’Italia è il paese di Pane amore e fantasia. La buona tavola la ritroviamo nei film di Ettore Scola, Federico Fellini, Pupi Avati, Marco Ferreri, Nanni Moretti e tanti altri. Il cinema ha raccontato, attraverso il cibo la storia dei tempi difficili e la genuinità della sopravvivenza.
Con il boom economico la fame vera, una volta soddisfatta, si è trasformata in fame di denaro, di successo, l’atto vitale del nutrimento è divenuto metafora di sesso e possesso.
In pochi anni assistiamo alla trasformazione veloce delle tradizioni gastronomiche e l’affermazione del cibo finto dell’agroindustria. Le immagini del cinema hanno tracciato una storia parallela: dalla fame della guerra allo spreco dei giorni nostri. Non mangiamo solo per nutrirci, ma per colmare dei vuoti, perché siamo annoiati o tristi o per gratificarci, per fare una pausa. Programmi televisivi di cucina ci vengono offerti quotidianamente dai palinsesti televisivi, le riviste e i volumi presenti sul mercato editoriale stimolano fame di ciò che è superfluo mentre, tra uno spettacolo e una pubblicità, sullo schermo appaiono faccine di bimbi che muoiono di stenti. Studi antropologici attestano che la metà della popolazione mondiale è affetta da malattie metaboliche per consumo eccessivo di cibi, nel contempo altri vivono in condizioni di estrema povertà. L’appetito insaziabile in tutte le sue forme oltre ad essere dannoso per la salute psicofisica, porta a circondarsi di cose inutili e si traduce in uno spreco che danneggia tutti. Il ripetersi di tale atteggiamento di vita diventa un abitudine di cui non ci si rende più conto, un abito. Aristotele li definiva “abiti del male” che distruggono ogni possibilità anche di crescita interiore. La catastrofica conseguenza ambientale del nostro consumismo alimentare, ci costringerà a cambiare il nostro rapporto con il cibo indirizzandoci verso la scoperta di una nuova normalità. Quando la natura si ribella, l’uomo è costretto a rivolgersi ad essa in termini differenti e a riconsiderarla, nei momenti di crisi, come l’unica fonte di sopravvivenza. In questo periodo di alternanti quarantene, dopo aver saccheggiato i supermercati per la paura della fame, ci siamo rivolti ai prodotti della terra, i più semplici e rassicuranti, pane, pasta, pizza e quelli a km 0, della bottega vicina o del contadino.
L’Italia comunque è prima in Europa per numero di eccellenze alimentari, le produzioni biologiche sono ampiamente diffuse in molti comuni del nostro paese sia per quanto riguarda il consumo agroalimentare domestico sia nei mercati mondiali. Ampiamente diffusa è anche l’idea che l’individuo non sia capace di scegliere autonomamente come mangiare, in quanto incapace di valutare la bontà del cibo nutriente non percepibile in termini di gusto. A coprire questa carenza si delega il nutrizionista a scegliere alimenti utili alla salvaguardia della salute fisica e mentale. Un aiuto alla responsabilità individuale in un paradigma salutista è un problema culturale, colpevolizzare chi non aderisce al paradigma salutista è un capovolgimento etico così come è sbagliato sganciare il cibo dalla complessità di valenze cui è associato, vista, gusto, profumo. Equivale a smaterializzare il cibo fino a farlo diventare una medicina, uno strumento funzionale soltanto al mantenimento della salute. Non esiste un cibo salutare universale; le abitudini alimentari di ciascun popolo dipendono dalla sua storia. Nutrirsi è un bisogno biologico, mangiare risponde a una esigenza di tipo sociale. Il cibo riflette la struttura della società, le modalità di nutrimento ci parlano dell’identità di ciascun etnia, della sua civiltà, della struttura della società, della sua integrazione sociale e familiare della stratificazione di più segmenti sociali, culturali, ambientali, scientifici, popolari, etici, affettivi.

Ratatouille - Omaggio a Yulia Brodskaya - Paolo Griffa Chef




Commenti

Post più popolari