L’UNIVERSO DI FELLINI

Quando uno incontra una nuvola è la luna che se lo porta
Federico Fellini

L’anima di Fellini è nei suoi film. In essi si è raccontato con generosità, magari inconsapevole, ma costante. In ognuno ci sono spunti autobiografici che lui rifiuta di riconoscere e afferma che sono frutto della fantasia e dell’immaginazione, ma proprio per questo fanno parte del suo ricchissimo mondo interno. In una intervista con Giovanni Grazzini, egli dice: “Davanti a un innocente mi arrendo subito e mi giudico pesantemente; i bambini, gli animali, gli sguardi con cui ti fissano certi cani, l’estrema modestia che a volte ravviso nei desideri di gente umile, hanno il potere di turbarmi.”  Le radici da cui sono nate Gelsomina, Zampanò e la loro storia pescano in una profonda zona oscura, costellata di sensi di colpa, timori, struggente nostalgia, rimpianto per una innocenza tradita. La zona dell’infanzia è per lui, come per ciascuno di noi, la base su cui si svilupperà il resto della vita; essa ritorna nei sogni a dare vita a ispirazioni, tormenti, fantasie. In un certo qual modo ci definisce.  Ne “La strada” secondo Luigi Chiarini, Fellini sembra abbandonarsi alla confessione, al dramma della sua angoscia. Il pianto, il riso, divengono il dolore e la speranza del mondo, Gelsomina e Zampanò sono simboli. Secondo Giulietta il vagabondare di Zampanò rappresenta alcune peculiari caratteristiche di Federico mentre Gelsomina rappresenta Federico bambino. La strada, vicolo cieco senza sbocco, è la difficoltà della comunicazione ma diventa poesia pura nel tenero e turbolento rapporto tra Gelsomina e Zampanò. Lo slancio lirico de “La strada” si fonde e si equilibra ne “Le notti di Cabiria” dove al dramma della condizione umana si aggiunge il dramma individuale di ciascuno. L’accesso alla maturità è stato per Fellini l’approdo a un altro tipo di infanzia, un fantastico mondo immaginario, non più quello del circo e del fumetto, ma qualcosa di più intimo e profondo. La chiave fondamentale rimane quella del “povero di spirito” ma vista in una prospettiva quasi evangelica. Viene in mente la letteratura russa dell’800, i poveri di spirito somigliano ai personaggi di Dostoevskij, Tolstoj, Gogol, per i quali i poveri di spirito sono i semplici, coloro che possono accedere al regno dei Cieli. Il fascino del diverso, il marginale, il vagabondo, il senzatetto, il ritardato, tutte figure che lo aiutano a comprendere la realtà esterna ed interna, rimanda al pensiero di Jung.  E’ un passaggio fondamentale per intuire il mistero dell’esistenza. “Ho cambiato orizzonte, (afferma) ho spostato il mio punto di vista, guardo queste cose come un mondo dentro di me”.  Tale consapevolezza, grazie all’influenza del grande psicoanalista Ernst Bernhard, allievo di Jung, la si nota chiaramente nel meraviglioso “8 e mezzo”, il film dove il misterioso, il nascosto, l’essenziale raggiungono la più alta espressione psicologica e cinematografica. Sogno, memoria, realtà si incontrano, si confondono, si sovrappongono ad identificare i misteri e i desideri nascosti attraverso immagini e musiche oniriche, travolgenti, entusiasmanti, fantastiche. “8 e mezzo” è il film del ricordo, dove Mastroianni è il suo alter ego cinematografico.


Insieme ad “Amarcord” è la memoria che lo aiuta a ricercare le origini della propria “Poetica”. Il Circo, Roma e Rimini sono le sue città dell’anima. Fellini dice di non riconoscere gli spunti autobiografici ma noi lo ritroviamo nelle fantasie e immaginazioni di quasi tutti suoi film. Importantissimo è stato per l’evoluzione della sua poetica l’incontro con Rossellini. Grazie a lui, Fellini esce definitivamente dai canoni del neorealismo per entrare in una presa diretta della vita in un dimensione poetica, metaforica e religiosa. Quando nel 1960 fa “La dolce vita” dichiara: “Compongo una statua per romperla a martellate”. E’ la Roma sfarzosa e decadente degli anni 60, fatta di luci e di ombre, dove si cerca di vincere la noia tra sedute spiritiche e giochi di seduzione, in una società apparentemente giovane e sana ma profondamente malata. Fellini anche in questo film mette qualcosa di sé; tenero e aggressivo, divertente e tragico il film appare caotico ma nel contempo calcolatissimo, barocco ed espressionista, una sorta di Babilonia disperata nella quale il giudizio morale si accompagna a una sorta di compiacimento. Vario è il rapporto che Fellini ha con i personaggi femminili; da maschio della sua generazione crea la donna procace alla Ekberg o la tettona, la saraghina, le femministe de “La città delle donne” poi c’è Giulietta, l’interprete perfetta per la fantasia che lui ha elaborato di questa figura dalla femminilità misteriosa, diversa dalle altre. Giulietta nelle sue varie interpretazioni è la dimostrazione dei vari processi mentali fantastici e inconsci di Federico. Le maggiorate sono figure mitiche, enormi che rappresentano una realtà magica, un fantarealismo. Nel suo mondo artistico la sessualità ha sempre una nota affascinante, mitica, sfarzosa e giocosa come ad esempio nella scena, sognata, dell’harem in “8 e mezzo” oppure gli incontri amorosi ossessivi di “Giulietta degli spiriti”. Fellini era circondato da belle donne, ne era affascinato e molte ne ha possedute ma nessuna ha mai intaccato il profondissimo legame che aveva con Giulietta, per lui moglie e madre insostituibile. Penso a quanto abbia potuto influire la perdita del loro figlio, nato e morto dopo un mese di vita, in questa sorta di maternage che Giulietta aveva nei confronti del marito. Federico aveva nel profondo della psiche, intatto, un mondo infantile ricchissimo e onnipotente, che alimentava costantemente la sua fantasia e la sua creatività, ma per la sua fame di conoscere non era sufficiente, percepiva l’enormità dell’ignoto, del soprannaturale e lo ricercava nella sfera dell’esoterico, del magico, dei maghi e dei sensitivi. Quel mondo lo affascinava e ne aveva paura al punto da farsi condizionare e non completare il film su Mastorna perché il mago Gustavo Roi gli aveva predetto che sarebbe morto se lo avesse terminato, o da non permettere la pubblicazione dei disegni di Milo Manara, che ne illustrava lo storyboard, perché dopo la prima puntata, era uscita per errore la parola Fine. Quale figura onnipotente e persecutoria si annidava nel suo mondo interno? Per tutta la vita ha cercato di scoprirlo dentro e fuori di sé. Visita i luoghi raccontati da Carlos Castaneda, antropologo e sciamano, andando in Messico insieme ad Andrea De Carlo avendo, a loro dire, presagi tra il grottesco e il soprannaturale. Fellini cercherà di allontanarli dalla sua mente con i mezzi a lui familiari, attraverso le varie sceneggiature. Durante la lavorazione del “Satyricon” dichiara che l’immagine di un mondo scomparso, quei personaggi, quegli ambienti è come se gli apparissero “per forza medianica, richiamati dal loro silenzio, da un rituale stregonesco (…) Lo sforzo è proprio quello di tentare l’evocazione di un mondo e saperlo guardare con occhio limpido, sereno”. Dopo la prima proiezione del film, conferma: “E’ un viaggio nella sconosciutezza, un viaggio verso l’antichità, dove l’antichità è uno strato psichico molto profondo da cui fare emergere qualcosa (…) Ho voluto fissare il mio sguardo nell’oscurità.” L’oscurità dell’aldilà, della crudeltà, della violenza, della morte, dell’inferno, per affermare la luce della vita. Nel 1990 Fellini dirige il suo ultimo film “La voce della luna”, tratto da “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni. E’ la sua invocazione al silenzio contro il frastuono inutile e fastidioso di una civiltà malata. Spunto di meditazione sulla dimensione spirituale della vita e sul bisogno d’amore.

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