LE BANALITÀ DEL MALE
Non
si può ricordare qualche cosa a cui non si è pensato e di cui non
si è parlato con se stessi.
Hannah Arendt
Il
resoconto del processo ad Adolf Eichmann racchiude in sé la storia
di un popolo e il fallimento di ciò che fa dell’essere umano un
essere pensante. Eichmann, l’imputato, appare come un essere
normale, sicuro di sé. Il suo aspetto non ha niente di sbagliato,
mostruoso o demoniaco che giustifichi le sue azioni. Afferma con
serenità di aver agito secondo le leggi, obbedendo agli ordini. Ed è
proprio dietro questa terribile normalità, capace di commettere le
più grandi atrocità, che la Arendt rintraccia la banalità del
male. Tale normalità spaventa quasi più delle atrocità commesse
perché implica che il non riflettere, il non pensare alle
conseguenze delle proprie azioni, porti questo nemico del genere
umano a non vedere il male, a non accorgersene, a non sentirlo. Il
male, come il bene, presupporrebbe una scelta, un desiderio, una
motivazione valida, un pensiero. Quando il male diventa “male
assoluto” non ha radici, non si sa come affrontarlo perché esula
da qualunque principio religioso, morale, etico. L’unica
motivazione possibile per dare un senso a chi si sottrae alla legge e
all’obbedienza è forse l’incapacità di continuare a vivere con
un peso così forte. Alla radice del male c’è il nulla, solo il
bene ha profondità e può essere integrale. La Arendt afferma che
una morale ben radicata e un sistema di valori etico non bastano a
fermare il male. L’esperienza insegna che i propri valori possono
essere facilmente ribaltabili dalla società contemporanea.
In occasione del giorno della memoria riprendo in mano questo libro e ho la sensazione, che col passar degli anni, mi colpisca con forza maggiore l'assurdità di questa "umanità civile" che appare così terribilmente normale. Sfilano sullo schermo televisivo bambini piccoli
strappati alle madri, uomini e donne di ogni età, macilenti, lo
sguardo vacuo di chi non ha più volontà o speranza. Non sono scene
di un film, sono fotografie di una tragica realtà da scolpire nella
mente, con la consapevolezza che in ciascuna di loro c’è una
nostra madre, una nostra sorella, un nostro figlio, aldilà di ogni
razza, di ogni colore della pelle. Non c’è mai limite alla
possibile ignoranza e presunzione legata solo ad un’epoca storica.
Quanto successo nel secolo scorso ha procurato a milioni di esseri
umani una sofferenza così grande che supera la comprensione ma non
segna purtroppo la fine della barbarie umana. La caduta del muro di
Berlino, di quella “striscia della morte” dove per ventotto anni
molte persone trovarono la morte, aveva suscitato un forte impatto
emotivo, sociale e culturale in tutto il mondo e la speranza della
libertà come diritto di tutti.
Quale
illusione! Altri muri vengono eretti materialmente, socialmente e
psicologicamente. Quotidianamente, dagli strati sociali più
scontenti e soggetti alle suggestioni di una cattiva propaganda
politica, ci giungono mediatiche immagini di nuove forme di
perversione della mente. Non c’è bisogno dei grandi numeri, dei
campi di sterminio o della “soluzione finale” per definire una
tragedia. Nel mondo la gente continua a morire, uccisa perché
diversa, sfruttata, ridotta alla miseria dai colonialismi,
dalla monopolizzazione della ricchezza, dalla brama di potere che
distrugge ogni sentimento di fratellanza o legame di sangue.
Purtroppo
quanto emerso nel processo Eichmann non basta a scongiurare la
possibilità che un giorno si commettano crimini analoghi. Quando un
reato è commesso una volta, scrive la Arendt, è più facile la sua
ripetizione. La condanna di Eichmann, ritenuto colpevole senza
capirne e analizzarne la profonda mediocrità, senza riflettere sulla
genesi del male che egli incarnava, è sconcertante inconsapevolezza,
è fallimento del pensiero. Chi commette atrocità del genere ha
svolto dentro di sé, consapevolmente o inconsapevolmente, un
processo che lo ha reso disumano, distaccato e stupido. Ma alla base
di qualsiasi crudeltà c’è un lavoro interno che elimina l’umanità
dell’altro, lo rende oggetto, cosa, numero, simbolo da distruggere.
Contemporaneamente proietta sull’altro il suo non essere più
soggetto padrone di sé, ma oggetto di una volontà superiore.
L’olocausto
di Hiroshima e Nagasaki sembrava poter cambiare il corso della storia
in modo irreversibile. Le bombe all’uranio e al plutonio avevano
procurato una carneficina di massa per avvelenamento da radiazioni.
Il presidente Truman disse che in tal modo si era posto fine alla
guerra impedendo altri spargimenti di sangue. L’immorale uccisione
civile su larga scala non fu considerata crimine di guerra e nessuno
fu condannato. Il peso morale dell’azione statunitense è stato a
lungo oggetto di dibattiti. La bomba atomica continua ad essere
costruita e rappresenta ancora oggi una minaccia possibile per
l’umanità.
Trasmettere
la memoria della storia non è una cosa facile, le nuove generazioni
posseggono una memoria oggettiva ma difettano spesso di una memoria
soggettiva, di uno spirito critico che la velocità dello sviluppo
tecnologico può minare alla radice. L’informazione costante e
intelligente dovrebbe avere la funzione di legare sempre il presente
al passato, stimolare la consequenzialità degli avvenimenti, la
funzione del linguaggio, il rapporto tra causa ed effetto, la
conoscenza. Assistiamo spesso ad una informazione “ad effetto”
che tende a stupire, affascinare, incurante delle possibili falsità
di quanto afferma, alle dipendenze del politico di turno. Una
informazione veramente libera, condotta da persone intelligenti e
preparate, sarebbe la caratteristica fondamentale di un popolo
veramente civile.
L’Arendt
nel suo libro citava il coraggio e la capacità di chi si opponeva
alle imposizioni inaccettabili della Germania. In molte Università
della Danimarca si tenevano lezioni obbligatorie per educare i
giovani alla non violenza e alla resistenza passiva anche quando
l’avversario era violento e disponeva di mezzi infinitamente
superiori. In Norvegia, quando Eichmann ordinò la deportazione degli
ebrei ad Auschwitz, molti uomini si dimisero dalle cariche che
occupavano al governo. In Svezia la cittadinanza offriva asilo ai
perseguitati. In Italia il generale Roatta dichiarò che consegnare
gli ebrei era incompatibile con l’onore dell’esercito italiano.
Tali gesti, scrive Hannah Arendt, furono il prodotto di una spontanea
umanità di un popolo di antica civiltà, non il risultato di una
profonda sensibilità politica, di una innata comprensione dei doveri
e delle responsabilità di una nazione indipendente come la
Danimarca. Ma emotività e spontaneità non bastano. L’antica
civiltà del popolo italiano, spesso conservata nei libri di storia,
è come un antico gioiello esposto in una teca con il quale ci si
adorna nei giorni di festa, quando si canta l’inno nazionale con la
mano sul petto, magari in uno stadio prima di una partita. Ma la si
dimentica subito dopo. La civiltà si manifesta nelle azioni
quotidiane, nella buona educazione, nel rispetto delle altrui
opinioni, nel linguaggio, nella responsabilità di chi fa politica,
cultura e informazione, nel senso di umanità verso l’altro e verso
se stesso, nello sguardo costante verso il futuro e il passato. La
memoria della nostra antica civiltà presuppone un pensiero costante
da coltivare lasciando spazio al dubbio e a nuove circostanze.
Da
quando il passato non proietta più la sua luce sul futuro, la mente
dell’uomo è costretta a vagare nelle tenebre.
Hannah Arendt
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